Comune di Nardodipace

Un treno di pietra che corre lungo il crinale della collina o una nave rimasta incagliata nella Valle dell’Allaro, giunta qui nei tempi antichi, quando le acque del fiume erano ancora navigabili, con la poppa rivolta verso la montagna e la prua che punta dritta ad oriente e che saluta il sole che sorge sullo Jonio. È l’immagine più comune che il visitatore ha del Vecchio Abitato di Nardodipace, non appena lo intravvede al termine di una tortuosa strada che dalla montagna scende a valle, in una serie di tornanti che si susseguono lungo paesaggi di grande bellezza, nel variare repentino della vegetazione che, nel giro di pochi chilometri, vede le conifere cedere il posto ai lecci, ai castagni e infine agli ulivi e agli agrumi. Il paese sorge su un costone di roccia lambito dall’Allaro, da un lato, e dal torrente Aucella dall’altro, con le case che si affacciano in rapida successione sulla via principale, uno stretto budello che attraversa l’abitato da cima a fondo. Sembra un gioco del destino il fatto che proprio queste due immagini ‒ il treno e la nave ‒ che la morfologia del paese richiama alla mente, ne abbiano tracciato, sin dall’inizio, la sorte. Quello che da queste parti tutti chiamano ancora “lu Pajisi” è infatti oramai un borgo abbandonato, abitato solo da una manciata di persone che hanno scelto pervicacemente di continuare a viverci.

È forse lo stato di immobilità, di vita sospesa, che rende questo luogo così affascinante. Passeggiando per le vie del vecchio paese pare ancora di sentire le voci provenire dalle mezze porte di legno dipinto d’azzurro delle casette di pietra. Il silenzio è totale, interrotto solo dal mormorio del fiume e dal cinguettio degli uccelli. A volte, nelle giornate di vento, sembra quasi di udire ancora l’orologio del campanile, del quale rimane unicamente la monofora vuota che lo ospitava, scandire i suoi rintocchi nella valle.
Il borgo, che nel censimento del 1861 contava oltre 1.200 abitanti, vide il suo lento declino in seguito alla disastrosa alluvione del 1951, come altri comuni della Calabria ionica. A partire da quel funesto evento, molti cittadini, si trasferirono nel Nuovo Abitato sorto più a monte, sul pianoro di Ciano, altri scelsero tuttavia di rimanere lì tra quelle vecchie case, riparandone amorevolmente le ferite piuttosto che trasferirsi in quella new town, certamente più moderna e funzionale, ma allo stesso tempo senz’anima. Nardodipace rimase per tutti “lu Pajisi”, il vecchio borgo, il nuovo abitato venne continuato a essere chiamato da tutti “Ciano”.
L’alluvione fu però solo una delle cause dell’abbandono. Negli anni ’50 la Calabria tutta, specie quella delle zone interne, venne interessata da un intenso movimento migratorio, una sorta di frenesia che da un lato spingeva gli abitanti degli antichi borghi delle colline a spostarsi verso il mare (contrariamente a quello che accadde a Nardodipace dove lo spostamento avvenne in senso opposto) e dall’altro portava i calabresi a partire oltreoceano, in Canada, negli Stati Uniti, in Australia, e poi nel Nord Europa e successivamente verso le regioni del triangolo industriale.
Un registro della confraternita del Sacro Cuore, gloriosa istituzione che resse la comunità per oltre un secolo e dissolta anch’essa nell’apocalisse degli anni ’50, riporta un elenco dei confratelli iscritti. La maggior parte dei nomi risulta barrata con una matita blu. A fianco qualcuno ha annotato “Emigrato” o più laconicamente “America”.
Nel percorrere il corso principale, il visitatore non resista alla tentazione di inoltrarsi nei vicoli che si aprono tra le case: gli si parerà davanti uno spettacolo mozzafiato, con le due valli, quella dell’Allaro e quella dell’Aucella, puntellate di orti ricavati su ripide terrazze e, specie in primavera, ammantate della più rigogliosa vegetazione mediterranea.
Non si può lasciare il borgo antico senza una visita alla piccola chiesa che sorge in uno slargo a metà dell’abitato, nel rione “campanaro”.
Varcata la soglia dell’edificio si viene investiti da un fiume di memorie. Tutto è pulito e lindo. Le pareti verniciate di fresco, i fiori appena recisi sull’altare. È come se il tempo si sia fermato e quella piccola chiesetta di campagna, con la facciata che punta verso il mare, sia un avamposto della lotta contro il tempo e l’oblio.
All’interno sono custodite alcune statue lignee di bottega serrese, tra cui il monumentale Sacro Cuore di Gesù e la raffinata statua della Madonna della Natività, chiamata qui “Madonna dell’8 settembre”.
Proprio l’8 settembre, il giorno della festa, è il momento migliore per visitare il borgo che pare rianimarsi seppure per un giorno soltanto. Le vecchie case vengono riaperte e i comignoli spenti tornano a fumare spandendo nell’aria l’odore di legna bruciata che si confonde con quello del sugo di carne di capra che sobbolle lentamente nei tegami di terracotta e con quello più acre della polvere da sparo dei mortaretti che salutano la processione della Vergine che si snoda, come ogni anno, lungo i vicoli.

Lasciato il Vecchio Abitato, risalendo più a monte lungo la provinciale che, congiungendosi con l’ex statale 110, giunge a Serra San Bruno, si arriva nel nuovo abitato di Nardodipace. È il centro posto più in alto dell’intero Parco delle Serre, a ben 1.100 metri d’altezza.
Il paese è nato in due fasi successive, la prima è quella relativa alla ricostruzione post alluvione del 1951, la seconda è successiva all’alluvione del 1972/’73. Il nucleo originario, quello degli anni Cinquanta, venne progettato dal celebre architetto Saul Greco, sebbene nel tempo i vari interventi realizzati sulle abitazioni dai proprietari ne abbiano snaturato le forme e l’armonia originarie.
Lo stile di Greco si rispecchia pienamente nella chiesa che sorge su un punto elevato del paese. Osservando l’interno dell’edificio si rimane stupiti dallo stile severo che mette in evidenza unicamente le strutture portanti, secondo quella che in quegli anni veniva definita “architettura degli ingegneri”.
Ma ciò che lascia davvero a bocca aperta il visitatore sono le straordinarie maioliche di Pietro Cascella che ornano l’intero tempio. Cascella è tra i più grandi scultori italiani del Novecento, autore, insieme al fratello Andrea e all’architetto Lafuente, del celebre “monumento alle vittime di Auschwitz” che sorge nel campo di concentramento polacco.
Le opere di Nardodipace costituiscono davvero una rarità: com’è noto, lo scultore abruzzese prediligeva l’uso della pietra e si è dedicato alla ceramica per un lasso di tempo piuttosto breve.
Sono di Cascella la Madonna dallo stile bizantineggiante della facciata; il monumentale bassorilievo dell’altare; il fonte battesimale, con le sue forme che ricordano l’arte precolombiana ma dal grande significato teologico (un medesimo Spirito che permea di sé le multiformi espressioni della religiosità); la via crucis; i paliotti (splendido quello dell’altare maggiore); le acquasantiere, i lampadari e gli altri elementi decorativi degli altari.
Un vero e proprio museo d’arte contemporanea, tanto più sorprendente quanto inaspettato.

Nel 2005 da Nardodipace arrivò una notizia che fece il giro del mondo: nel piccolo paese delle Serre erano stati rinvenuti due imponenti complessi megalitici probabilmente risalenti alla tarda età della pietra. “La stonehenge italiana”, titolarono i giornali.
Per la verità le due strutture erano note da tempo immemore alla gente del luogo e la loro peculiarità non era certo passata inosservata, tanto che erano state chiamate nel dialetto locale “pietri ’ncastedrati” ovvero “le pietre accastellate”. Le scoperte più sensazionali, si sa, sono quelle che sono da sempre sotto gli occhi di tutti e ciò che le rende possibili è proprio uno sguardo differente. Nel caso di Nardodipace, fu un fotografo del luogo, cultore di storia antica, a intuire che, forse, quelle strutture custodivano una storia persino più avvincente di quella della chioccia dai pulcini d’oro che disvela in sogno al fortunato prescelto il segreto del suo tesoro, e che veniva raccontata da sempre ai bambini nelle lunghe sere d’inverno davanti al focolare.
I pareri degli esperti sono stati però discordi sin dall’inizio. Il geologo dell’Università della Calabria accorso a indagare quel mistero non ebbe dubbi sull’origine antropica così come qualche studioso di preistoria; forti perplessità vennero invece avanzate dagli archeologi inviati dalla soprintendenza.
I dubbi non sono stati finora sciolti da una campagna di scavi o da indagini con il georadar e si è optato per una ancora più sibillina tassonomia, definendo i due complessi “geositi”.

Che siano stati teatro di antichi riti e sacrifici a qualche sconosciuta divinità o che siano frutto di chissà quale sommovimento del terreno che ha dato loro questa forma peculiare, i megaliti (noi li chiameremo così, nel pieno significato etimologico del termine) rimangono luoghi di incredibile fascino, immersi in un contesto naturalistico straordinario, meritevoli senz’altro di essere visitati e ammirati in tutta la loro maestosa e arcana bellezza.